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AdVersuS, Año III,- Nº 6-7, agosto-diciembre 2006
ISSN: 1669-7588
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[Full Paper]
IL PROBLEMA DELLA SOGGETTIVITÀ
(Risposta a Jean Paul Sartre)

Cesare Luporini
Istituto Gramsci
Universita di Roma I "La Sapienza"
Università degli Studi di Firenz

 

 

Nota introduttiva

Il testo sotto riportato è la relazione tenuta da Cesare Luporini l' 11 dicembre 1961, in occasione del convegno Il problema della soggettività, organizzato a Roma dall'11 al 13 dicembre dall'Istituto Gramsci e dalle riviste «Aut-aut», «Società», «Il pensiero critico». Il convegno fu aperto dalle relazioni di Enzo Paci, Jean-Paul Sartre, Cesare Luporini, e seguito da due giorni di serrato dibattito, a cui parteciparono, fra gli altri, Alicata, Della Volpe, Colletti, Lombardo Radice, Valentini, ed anche Piovene e Guttuso.

Il materiale, costituito dalla trascrizione dattilografica, sottoposta ad una prima correzione, della registrazione degli interventi, è conservato alla Fondazione Istituto Gramsci di Roma (cartella Ig Il problema della soggettività. Dibattito con Sartre. 11-13 dicembre 1961 , cc. 1-164 e 1-131). Di esso era stata pubblicata solo la relazione e alcune risposte di Sartre ("Soggettività e marxismo”, Aut-Aut , 136-137, 1973, pp. 133-158; "La conférence de Rome, 1961. Marxisme et subjectivité”, Les temps modernes, 560, 1993, pp. 11-39). La relazione di Luporini (conservata nelle cc. 49-77) è riprodotta nella sua interezza; ci si è limitati a togliere le non rare ripetizioni dovute all'espressione orale – di cui il testo conserva l'andamento e la struttura– e alcune interruzioni da parte degli interlocutori.

Le relazione si colloca, nella bibliografia di Luporini, fra Verità e libertà che è del 1960 e la discussione con Galvano Della Volpe sul carattere della contraddizione in Marx, in Rinascita nel 1962 (ma iniziata proprio nelle giornate di dibattito del convegno). Essa è di alcuni mesi precedente rispetto a Marxismo e soggettività , il testo di una lezione tenuta a Varsavia nel 1962, pubblicato in Dialettica e materialismo nel 1974. All'inizio di Marxismo e soggettività, Luporini si ricollega all'incontro con Sartre e alla relazione del convegno di Roma: «un incontro – diceva – che si è concluso con il tentativo di definire i punti su cui si è d'accordo e quelli su cui si è in disaccordo e con l'intenzione di proseguire la discussione" (confr. C. Luporini, Dialettica e materialismo, Roma: Riuniti, 1974, p.112). Se il tema delle due relazioni è identico (quello della soggettività nella tradizione di pensiero che si richiama a Marx), sarebbe una forzatura dire lo stesso del loro contenuto. Esse condividono molti aspetti: l'individuazione dell'origine della tematica della soggettività nell'ambito della riflessione sulla scienza di epoca moderna, la delineazione dello sviluppo storico di questa tematica fino a Marx, attraverso Kant e l'idealismo tedesco (Fichte e Hegel), la centralità della soggettività umana nel materialismo storico; tuttavia buona parte di Marxismo e soggettività costituisce la prosecuzione proprio del punto accennato da Luporini alla fine del testo sotto riportato, richiamandosi a Sartre: il ruolo della soggettività nel processo storico, e nello sviluppo oggettivo delle formazioni economico-sociali. Per il resto, nell'incontro con Sartre, l'attenzione è invece rivolta a sottolineare la duplice natura della soggettività umana, insieme naturale e storico-sociale, a chiarire il carattere intenzionale di essa, e la ‘retroazione' di questo carattere intenzionale sugli aspetti naturali e sensibili dell'uomo: bisogni, emozioni, desideri; temi che erano stati sviluppati in Verità e libertà. Il testo sotto riportato appare come la tappa intermedia di una riflessione che si snoda da Verità e libertà a Marxismo e soggettività.

È una fase di passaggio nel pensiero di Luporini, il quale subirà profonde modificazioni negli anni successivi, in cui ha inizio la critica esplicita dello storicismo marxista, l'incontro con Althusser e lo strutturalismo, la svolta ‘dentro Marx'; modificazioni che lo condurranno a reimpostare in maniera notevolmente diversa molti dei problemi qui affrontati. Il testo –a cui si è lasciato il titolo del convegno– testimonia questa fase di passaggio, che è inseme, come si noterà, di apertura e di confronto.

Sergio Filippo Magni
Università degli Studi di Firenze
Dipartimento di Filosofia

Dopo la bellissima relazione di Sartre si comprenderà il mio imbarazzo nel prendere la parola. Non mi metto a discuterla direttamente adesso, perché credo che sarebbe fuori anche del metodo di questo incontro. Cerco di guardare le cose da un altro punto di partenza.

Devo dire subito, però, che c'è un punto di profonda concordanza con quello che ha detto Sartre, che consiste prima di tutto in questo, direi proprio un elemento di concordanza al punto di partenza: l'essenzialità del problema della soggettività per il marxismo. Il problema della soggettività, cioè, non è qualcosa che si aggiunga al marxismo dal di fuori, eventualmente perché lo troviamo in una certa tradizione culturale, ma è intrinseco, anzi, a mio avviso, sta al centro. C'è poi un altro punto di concordanza non meno importante, ed è nella conclusione di Sartre, e cioè nella presenza costante del momento della soggettività in ciò che il marxismo considera come avente uno sviluppo oggettivo: la storia, le formazioni economicosociali; nell'inserzione dell'uomo come singolo, come gruppo, come classe, io aggiungerei anche come partito politico, nello sviluppo delle condizioni economico-sociali, secondo il procedere di certe loro leggi oggettive.

Tendo a sottolineare subito questi due punti di concordanza con Sartre e nella partenza e nella conclusione del discorso. A mio avviso, dalla relazione di Sartre emerge soprattutto un certo significato della soggettività. Se noi fossimo dei filosofi oxoniensi -peccato che non ci sia qui il nostro amico Rossi-Landi- ci metteremmo a fare un'analisi del linguaggio e a vedere i vari sensi, i vari significati, in cui si usa il termine soggettività', in cui il termine 'soggettivo', 'soggettività', è nell'uso, nel linguaggio comune; tenendo conto che è un termine di origine dotta, come direbbero i filologi, e quindi che nel linguaggio comune si presenta stratificato da questa origine. Ma siccome non siamo oxoniensi, siccome ci muoviamo sul terreno del marxismo, cercherò invece di vederlo da un altro punto di vista, e cioè da un punto di vista storico.

Mi preme però ritornare, prima di tutto, un momento su quello che ho detto, che è il punto d'accordo con Sartre, come momento di partenza del discorso e anche, se vogliamo, come momento di conclusione. Prendiamo il linguaggio comune del marxismo, il linguaggio della lotta politica. Nella lotta politica, economico-politica, noi marxisti parliamo sempre di 'condizioni oggettive' e di 'condizioni soggettive'; ed è una distinzione imprescindibile, non si può condurre una lotta politico-sociale senza questa distinzione, qualunque sia la fondazione filosofica di questa distinzione. Questo è un fatto per chi vive, per chi milita: egli sa che non è possibile porre una questione di analisi di una situazione concreta, dentro la quale muoverci, senza questa distinzione.

Io penso che il problema della soggettività abbia una importanza centrale, una importanza originaria e anche una importanza permanente nel marxismo; anzi che la risposta del marxismo a questo problema faccia tutt'uno con la nascita del marxismo: è un nucleo generatore del marxismo, in quanto materialismo storico. Quando dico questo non intendo ridurre il marxismo a materialismo storico, voglio chiarirlo per sventare un possibile equivoco. Però c'è anche, e lo dico apertamente, una certa polemica, se vogliamo una polemica interna, oggi, al marxismo: cioè non si tratta solo di constatare una genesi storica del marxismo.

Il marxismo ha cominciato come materialismo storico, poi si è arricchito in tante direzioni, è diventato materialismo dialettico, ha raggiunto in questo momento –direbbe Gramsci– la sua classicità, è questo sistema. Di fronte a questo sistema, a questo punto di maturazione che è la sua classicità, oggi cominciamo a esporlo dal punto di arrivo, dal cosiddetto materialismo dialettico, prima del materialismo storico. Questo è un tipo di presentazione del marxismo che è molto diffuso, che forse è ancora oggi prevalente nel mondo comunista, diciamolo pure francamente. Questo tipo di esposizione del marxismo ha origine, forse, dall' Antidühring di Engels; ma si dimentica che l'ordine di esposizione dei problemi nell' Antidühring era dettato dall'ordine di Dühring: Engels segue l'esposizione di Dühring. Però questo certo non basta come obiezione. Il fatto è che il marxismo a partire dall' Antidühring, fino al famoso capitolo di Stalin Materialismo dialettico e materialismo storico, si è venuto sistemando in questo modo. Ora io penso che ci siano delle ragioni storiche perché questo è avvenuto. C'era l'esigenza, come dice Gramsci, di un certo conformismo, come esigenza di unificazione di idee, di unificazione culturale, e questa certamente era la strada più facile per raggiungere questa unità. Però è ciò che ha condotto a mio avviso anche […] a un congelamento teorico del marxismo. Cioè io penso che, non solo nella sua origine storica, ma nella sua natura di teoria, nel marxismo rimanga centrale il materialismo storico, storico-dialettico naturalmente (qui tra noi non c'è nessuno che pensi che il materialismo storico non sia fin dall'origine anche dialettico: la tesi di Lefebvre –che Lefebvre stesso poi abbandonò– non ha nessuna presenza qui fra noi). Qualsiasi esposizione critica, internamente critica del marxismo, non può non muovere dalla centralità del materialismo storico.

Allora, impostare la questione storicamente penso che non sia soltanto una via di comodo, ma anche una via per la maggiore chiarezza e completezza e anche non dogmaticità dell'esposizione –anche se io dovrò essere molto sommario nella delineazione storica– cioè che questo abbia un valore non soltanto metodologico, ma anche teorico. Perché (ecco il punto: il valore teorico) il marxismo risponde fin dalla sua origine a problemi che erano già stati posti non solo nella realtà delle cose, ma anche dal pensiero. Questa non è una asserzione mia personale, è una cosa che dice Lenin, e Lenin dava molto peso a stabilire questo punto di vista. C'è un passo di Lenin chiarissimo in questo senso, quando dice che tutta la genialità di Marx sta proprio in ciò: che egli ha risolto dei problemi posti dal pensiero d'avanguardia dell'umanità. Se si dimentica questo noi avremo sempre delle esposizioni dogmatiche del marxismo, quindi delle esposizioni che lo bloccano, che lo chiudono.

Poi c'è da osservare un'altra cosa. Per il marxismo, e questo mi pare che venisse fuori anche molto chiaramente dalla esposizione di Sartre, il problema della soggettività è il problema dell'uomo: il problema dell'uomo come singolo, il problema dell'uomo come uomo naturale e come uomo storico, il problema dell'uomo come uomo associato. Credo che in questo il marxismo s'incontrava col proprio tempo, alla sua origine, ma s'incontra forse a maggior ragione con il nostro tempo, con l'esigenza del nostro tempo.

Sarebbe però errato credere che questa identità tra problema della soggettivà e problema dell'uomo sia connaturata al problema della soggettività e alla sua origine storica nel pensiero moderno. A mio avviso è l'opposto. Cioè il problema della soggettività nella filosofia moderna (intendendo filosofia moderna quella post-rinascimentale) emerge come un problema fondamentale della filosofia, possiamo dire, a partire da Galileo, da Cartesio e da Bacone, ma in questa sua origine non ha nulla a che fare con l'umanesimo. Non ha a che fare con l'umanesimo né nel senso storico della parola (per intendersi, l'umanesimo da Petrarca a Montaigne), né con l'umanesimo in nessun altro senso.

Questo problema della soggettività descrive un certo arco storico: possiamo vederci gli empiristi inglesi, i sensisti, Kant. Tutto questo arco storico fino a Kant, si muove all'ingrosso sullo stesso terreno che è stato il terreno di origine del problema della soggettività. Dopo, a mio avviso, abbiamo un'altra fase che possiamo rappresentare con due nomi, Fichte e Hegel, e che possiamo dire la fase della costruzione speculativa della soggettività. Poi abbiamo un punto di arrivo che io indicherei nelle Tesi su Feuerbach di Marx, e direi che questo punto di arrivo è l'umanizzazione del problema della soggettività, anche se, naturalmente, sulla via di questa umanizzazione si erano già posti, in qualche modo, Hegel e perfino Fichte, nonostante la loro costruzione speculativa.

Vorrei aprire una brevissima parentisi: io adopero il termine costruzione speculativa nello stesso senso in cui lo adopera Marx in rapporto alla critica dell'ideologia. Però, a mio avviso, bisogna distinguere tra metafisica e costruzione speculativa. È una distinzione che Marx non ha fatto esplicitamente, ma che, secondo me, è presente nel suo discorso. All'ingrosso, la metafisica, nel senso in cui, per esempio, Marx dice che fino a tutto il XVII secolo la metafisica era ancora produttiva sul terreno della scienza, è appunto qualcosa di ancora legato strettamente proprio ai problemi reali che la realtà umana, sociale, scientifica, poneva. La costruzione speculativa è qualcosa, invece, che avviene, sul terreno di una storicizzazione, di una presenza di elementi storici o storicistici: quello che vediamo in Fichte e che vediamo in Hegel. Perché sia più chiaro, vorrei fare un altro esempio comparativo. Cartesio è un metafisico, cioè il sistema cartesiano è un sistema metafisico, il quale produce poi anche sul terreno della scienza; altrettanto vale per Leibniz. Prendo questi perché sono proprio due esempi del momento in cui la metafisica può produrre sul terreno della scienza. Il sistema di Vico non è un sistema metafisico: il sistema di Vico è già una costruzione speculativa nel senso marxiano della parola, proprio per il fatto che Vico, che era, se vogliamo, un provinciale –anche se Della Volpe non è d'accordo– era tuttavia un grande pensatore, si muoveva, nel suo nucleo essenziale, su un terreno di anticipo di quello che avviene dopo Kant.

Ebbene, qual è allora il terreno originario del problema della soggettività? È detto molto rapidamente: questo terreno originario è quello che in termini moderni diremmo il terreno dell'epistemologia, o della metodologia della scienza. La scienza moderna si costituisce nel Seicento non soltanto contro le spiegazioni magiche o verbali del mondo fisico, ma anche in contrasto con l'empiria, con l'empiria descrittiva e catalogante nella quale l'osservatore, l'uomo, può dimenticare la sua presenza. La scienza moderna si costruisce, come tutti sanno, come esperimento, come incontro di metodo induttivo e di quello che modernamente chiameremmo metodo ipotetico-deduttivo. In cui quindi il rapporto tra l'osservatore e colui che costruisce l'esperimento e i dati oggettivi è una questione essenziale, centrale. Lo vediamo in tutti gli aspetti: prima di tutto la famosa distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie. Questa è una distinzione in cui appunto è implicito il problema della soggettivià e che c'è in tutti questi filosofi, c'è in Galileo, c'è in Cartesio, c'è in Locke, c'è in Newton, c'è, in un certo modo, anche in Kant. E poi la questione della differenza tra i moti apparenti e i moti veri, la profonda trasformazione di concetti antichi come il concetto dell'inerzia o il concetto della massa, trasformazione che nella scienza moderna va contro l'empiria del senso comune. Tutto questo ha fatto sì che necessariamente si dovesse porre su questo terreno della scienza il problema della soggettività. Il cogito cartesiano è una risposta che è stata molto importante ai suoi tempi, però non è un caso che proprio Vico, che partiva dal mondo sociale, e dalle costanti, dalla ricerca di costanti, del mondo sociale, respingesse in modo così aspro la soluzione di legare la certezza al cogito. (Ma il cogito cartesiano, come tutti sanno, è anche stato, in seguito, staccato da questo suo contesto storico privilegiato, prima dall'idealismo tedesco, poi giù giù fino a oggi, fino a Husserl a mio parere, e quindi è diventato il simbolo di tante altre cose).

Questo terreno epistemologico del tema della soggettività dura fino a Kant compreso, anche se Kant, a mio avviso, ormai è epigono, perché con Kant non si ha più produzione della filosofia sul terreno della scienza (piuttosto si chiudono certi conti, o si crede di chiudere certi conti). Ma in Kant la dissociazione del problema della soggettività dal problema dell'uomo è molto caratteristica, perché per Kant, come per tutti i filosofi classici, la realtà ultima umana, sono gli individui umani viventi, sono gli uomini come enti finiti. È un dato pacifico per il filosofo classico –questo è quasi sempre un dato pacifico– un dato che sarebbe strano discutere; forse l'unico che l'aveva revocato in dubbio in qualche modo era stato Spinoza, e Kant respinge come qualcosa di assurdo proprio la posizione iniziale di Spinoza, qualcosa che non ha diritto di stare nell'intelletto umano. Però, ed ecco qui la dissociazione, come si pone quel rapporto tra questi individui umani viventi e la soggettività? Per Kant ci sono almeno tre soggettivià: c'è la soggettività del senziente, dell'uomo come senziente, c'è la soggettività dell'uomo come desiderante –la facoltà di desiderare da cui nasce la morale, l'economia, tutte queste cose– poi c'è la soggettività dell'uomo come pensante, che è intersoggettiva, che è universale, però sempre soggettiva, che rende quindi la possibilità della comunicazione. (Secondo Hegel poi c'è anche una quarta soggettività, cioè la soggettività dello spazio e del tempo, questa intercapedine tra quella del senziente e del pensante. […] Hegel accentua questo fatto, quindi qualcosa che ci separa dalle cose piuttosto che connetterci). Quello che mi preme sottolineare è questa dissociazione, cioè la soggettività rispetto all'uomo intero rimane come dissociata. Tutto il sistema kantiano è un tentativo di suturare, di ricucire, queste diverse soggettività, perché ognuna ha una sua autonomia, delle leggi proprie; oppure di cercare dei ceppi profondi nascosti, misteriosi (tutto il libro di Heidegger su Kant è fondato su questo, sul ceppo nascosto, su queste operazioni misteriose […]). Ma, se guardiamo il quadro dell'uomo come ce lo presenta Kant, da una parte ci sono gli individui umani viventi, e dentro ognuno di essi ci sono queste diverse soggettività, cioè una dissociazione; è per questo che secondo me Kant, anche per la sua posizione epigonica è molto significativo.

Dopo c'è la fase della costruzione speculativa, che si muove da Kant dimenticando il terreno originario, il terreno dela scienza. Tipico è Fichte. La costruzione dell'io trascendentale dentro cui si cerca di giustificare, di ridurre, gli individui umani. Non che non ci siano qui delle scoperte, per esempio la scoperta che anche il pensiero è un'azione, Handlung, quello che Marx chiamava il lato attivo che era stato lasciato all'idealismo. Poi ancora Hegel. Il discorso su Hegel sarebbe molto complesso, vorrei sottolineare solo questo: che in Hegel abbiamo, nella Fenomenologia almeno, un preciso movimento verso la conquista dell'umanità dell'uomo nella sua individualità. Quando Hegel fa emergere l'autocoscienza non come punto di partenza, ma come una certa tappa della Fenomenologia e nel momento stesso in cui fa emergere l'autocoscienza la fa emergere in modo che non ci possa essere autocoscienza senza altra autocoscienza (cioè quel cerchio per cui la coscienza si chiude con se stessa –l'autocoscienza è la coscienza della coscienza, quindi è un chiudersi con se stessa– ma questa non si può chiudere con se stessa se non in quanto ci siano altre autocoscienze, vis à vis, di fronte, le quali si affrontano); vediamo già qui un movimento che va in senso inverso a quello fichtiano, che va nel senso della riconquista dell'umanità dell'uomo come uomini-individui. Però con qualcosa di più dei filosofi classici, cioè che questi uominiindividui sono visti come il prodotto di qualche cosa, come il prodotto di se stessi (è la valutazione che Marx dava quando parla della importanza della Fenomenologia in questo senso, anche se in un travestimento idealistico).

Quindi Hegel già pone in qualche modo quella domanda cui il marxismo originariamente, proprio nella sua origine, risponde. Hegel pone anche un'altra questione: quella della storia. Questioni che poi sono evidentemente connesse. Se io dico che il problema della soggettività nel marxismo, come problema dell'uomo, dell'uomo integrale, di tutto l'uomo, e il problema della storia fanno in sostanza una cosa sola, è evidente che mi corre l'obbligo di chiarire rapidamente anche questo punto. Il problema della storia era già stato posto da Hegel, come rileva Marx, nel senso della ricerca di una coesione interna dei processi storici e poi di tutto il processo storico dell'umanità, dell'umanità associata; e anche questo è accettato dal marxismo fin dalla sua origine come problema posto. Ciò che il marxismo respinge è la soluzione hegeliana, che rifiuta, appunto, come una soluzione speculativa: la continuità vista attraverso le idee, che è la posizione speculativa dell'ideologia. C'è una frase di Engels che mi pare dipinga molto bene, con grande semplicità, la risposta del marxismo. Engels dice: «i fatti concepiti nel loro proprio nesso e non in un nesso fantastico … il materialismo non vuole dire niente altro che questo». Il che implica tante cose, prima di tutto implica naturalmente la ricerca di una spiegazione immanente nella storia, quindi criteri per giudicare la storia che emergano dalla storia stessa, implica una spiegazione non finalistica, e questa è la grande differenza rispetto a Hegel. Una spiegazione non finalistica implica anche una spiegazione che ci lasci dentro la storia, cioè che ci lasci anche dentro le sue contraddizioni reali, che sfati l'illusione che, una volta spiegate le cose, le contraddizioni siano sparite. Ci lasci quindi dentro le contraddizioni reali facendoci assumere posizione come un termine della contraddizione –quello che diceva Gramsci– cioè levando un termine della contraddizione a principio di spiegazione della storia, del suo sviluppo, del suo svolgimento. Il che unisce quindi la spiegazione alla lotta, perché se noi ci identifichiamo con un termine della contraddizione reale, per poter abolire (non nel pensiero, ma modificando questa realtà) la contraddizione stessa, togliendone la base, questo significa che, nel medesimo tempo, ho un atteggiamento critico, se vogliamo scientifico, e un atteggiamentomilitante. […].

Ora, il modo di spiegazione marxista della storia, cioè il materialismo storico, coinvolge proprio in modo diretto il problema che abbiamo oggi qui davanti, cioè il problema della soggettività. Sul problema della soggettività, che quindi sta al centro dello stesso materialismo storico, se ne guardiamo la genesi, noi vediamo che abbiamo una genesi polemica (come sempre nel marxismo), e direi doppiamente polemica, perché una punta della polemica di Marx va contro Hegel, l'altra punta della polemica di Marx va contro Feuerbach. Noi rischiamo di cadere –questo accade continuamente tra di noi– in una deformazione se non teniamo presenti i due aspetti, cioè la loro integrazione.

La polemica verso Hegel viene espressa in queste parole: «presupposto di tutta la storia dell'uomo è l'esistenza di individui umani viventi», e Marx dice presupposto reale, non immaginario, non un dogma –ora vedremo perché non è un dogma– e da cui si può astrarre solo nell'immaginazione. È evidente che dicendo questo, «presupposto di tutta la storia dell'uomo –e quindi della filosofia, delle scienze, e di ogni altra cosa– sono gli individui umani viventi», il marxismo sembra raggiungere, e anzi raggiunge se vogliamo, il pensiero comune, il pensiero ordinario, il buon senso e anche la scienza, anche l'atteggiamento, il comportamento dello scienziato. Però sarebbe sbagliato credere che sia una posizione che il marxismo desume dal buon senso, dalla scienza. Al contrario è una posizione che il marxismo desume attraverso una via critica, e cioè attraverso la critica all'ideologia, alla costruzione ideologica, e attraverso la critica alla costruzione speculativa che si fa sull'ideologia.

È proprio attraverso questa critica che si arriva alla conclusione che presupposto di ogni storia è l'esistenza dell'individuo umano vivente. In questa frase, direi, tutto il peso è sulla parola ‘presupposto', e forse qui, ancora una volta, in una duplice direzione. Prima di tutto in una direzione specificatamente hegeliana, cioè contro la filosofia che si pretende senza presupposti, contro la filosofia che pretende di autofondarsi. Il marxismo esce dall'ambiguità hegeliana –perché in verità poi era una ambiguità– di una filosofia, la filosofia di Hegel, che, per un verso, presuppone tutta la storia umana, e, per un altro verso, presuppone solo se stessa autofondandosi. Era già una critica che era stata fatta da Feuerbach. D'altra parte è anche chiaro che solo così Hegel poteva costruire speculativamente il corso della storia umana. Vorrei però notare una cosa: che nel dare quella risposta, nel condurre questa polemica, il marxismo non perde la ricchezza di nessuno dei due rami della posizione hegeliana. È evidente quello della storia: presuppone tutta la storia del genere umano, solamente non costruita ideologicamente, ma nei nessi reali. Ma non perde nemmeno quell'altro: del pensiero che parte da se stesso; solamente questo pensiero che parte da se stesso è trasformato da speculazione in critica, in critica interna, nella quale il pensiero mantiene la sua autonomia relativa come momento della prassi. Il marxismo non si confonde con il pragmatismo, almeno con il pragmatismo volgare (perché poi il pragmatismo, in verità, è un problema più complesso), con il pragmatismo nel senso più comune e volgare: cioè c'è l'autonomia del momento del pensiero come funzione della prassi. Quindi non si perde nulla della ricchezza hegeliana pure avendo respinto tutto quello che c'è di speculativo. Ma poi dire che l'individuo umano vivente è il presupposto reale di ogni storia significa anche dire che esso, come tale, individuo vivente, umano vivente, non è ancora l'uomo nel senso della sua storicità. Per questo è un presupposto: non è ancora l'uomo storico-sociale. Quindi, in questo, il marxismo oltrepassa subito sia il pensiero comune sia il pensiero scientifico.

Con questa seconda precisazione siamo già nella polemica contro Feuerbach. La polemica contro Hegel asserisce che l'uomo è natura. Quando dico che l'uomo è inidividuo umano vivente dico che l'uomo è natura e che questo è un presupposto permanente, cioè che l'uomo era natura prima di essere uomo, continua a essere natura anche quando è uomo storico-sociale. Si potrebbe dire che Hegel, in fondo, avrebbe potuto accettare questa posizione, si comincia anche per lui dalla coscienza naturale o naturalistica. Però c'è ancora qualche cosa in questa posizione marxista anti-hegeliana che afferma l'uomo come natura, cioè che dietro al fatto dell'uomo come natura non c'è altro, non c'è l'idea, non c'è l'idea che si estrinseca in natura fino poi a arrivare a essere uomo attraverso l'animale: c'è un presupposto al di là, all'indietro del quale non si può andare. La polemica di Marx contro Feuerbach asserisce invece che l'uomo, in quanto uomo e non più animale, non è più natura. Cioè che il mondo storico-umano-sociale, in cui l'uomo produce se stesso, non è più un mondo dominato dalle leggi biologiche, e quindi che l'essenza umana dell'uomo come uomo storico-sociale non è né naturalistica né fissa, non è la generalizzazione di un ente che io possa classificare in modo naturalistico. Questo c'è sempre nelle Tesi su Feuerbach. A mio avviso le Tesi su Feuerbach sono una specie di statuto filosofico del marxismo. Questo è espresso in modo molto netto: il Wesen umano dell'uomo non è un abstractum che stia dentro ogni singolo individuo, non è una generalità muta, la generalità muta della Gattung, del genus. L'uomo è un'altra cosa: questo Wesen, questa essenza dell'uomo, è l'insieme dei rapporti sociali.

La problematica uomo-natura è intrinseca, è essenziale al marxismo, ed è una problematica abbastanza complessa. Però nella sua genesi è legata a queste due polemiche che ho detto prima, contro Hegel e contro Feuerbach. Qui sono costretto a ridurla, a schematizzare all'estremo. È una problematica anche estremamente dialettica, la quale ci è proprio rivelata dalla prima delle Tesi su Feuerbach. Marx è d'accordo con Feuerbach sulla irriducibilità del sensibile all'intellegibile, all'intellettuale, e quindi anche dell'oggetto sensibile all'oggetto del pensiero: in fondo c'è ancora Kant sullo sfondo. Però fa a Feuerbach, come è noto, un rimprovero, anzi un duplice rimprovero: rimprovera a Feuerbach di non aver concepito il sensibile «come attività sensibile umana, come attività pratica», cioè, aggiunge Marx, di non aver concepito il sensibile «soggettivamente». Ecco proprio il nostro problema. E, dice, quindi in tal modo il materialismo ha abbandonato il lato attivo all'idealismo. Poi nel medesimo contesto Marx rimprovera a Feuerbach di non aver concepito «l'attività umana stessa come attività oggettiva». A prima vista sembra quasi indecifrabile, verrebbe voglia di correggere: qui c'è un errore di stampa, ha detto oggettiva invece di dire soggettiva. Invece non è così, non c'è nessun errore di stampa, le due posizioni sono due posizioni strettamente legate fra di loro.

La spiegazione la troviamo in altri testi (per questo le Tesi su Feuerbach isolate sono suggestive quanto si vuole, ma anche un po' indecifrabili). Là dove Marx dice che «un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esse stesso oggetto per un terzo non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente: il suo essere non è niente di oggettivo». E dice ancora: «essere oggettivi, naturali, sensibili e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure essere noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto al di fuori per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e all'espressione del suo essere». Sotto questo aspetto l'uomo è immediatamente ente naturale, come ente naturale vivente, e, proprio perché non potrebbe esserci senza questo rapporto, è ente oggettivo. La conclusione è questa: l'uomo è «la soggettivià di oggettive forze sostanziali la cui azione deve essere anche azione oggettiva». La soggettività di oggettive forze sostanziali: in questo senso la soggettività, cioè, è un fatto di natura.

La soggettività è un fatto di natura, tutto il vivente è soggettivo, in ultima analisi non solo gli animali superiori, ma, se andiamo a vedere, tutto il vivente. […] Qui non c'è nessun romanticismo, la cosa è estremamente scientifica. Quali sono le caratteristiche del vivente? Prima di tutto la irritabilità, il rispondere ad uno stimolo, e poi il fatto che non c'è materia vivente se non come rapporto di un ambiente interno ed un ambiente esterno, e scambio tra l'ambiente interno e l'ambiente esterno. Quando io parlo di ambiente interno ho già il germe della soggettività e questo manda a gambe all'aria tutto il grande mito della interiorità, non nel senso di Sartre, ma nel senso spiritualistico: questa ipoteca paurosa, metafisica, che grava su di noi da secoli, da tutto il cristianesimo (e anche sullo stesso Kant: quando fa la confutazione dell'idealismo e dice che non c'è determinazione interiore se non c'è prima una determinazione esterna, questo è fatto ancora in rapporto a questo mito dell'interiorità). È quello che Ryle –perché non c'è solo il marxismo, ci sono tante altre correnti– chiama, così acutamente, «lo spettro dentro la macchina»: l'uomo spirituale dentro l'uomo vivente, corporeo, materiale.